NEL CUPO BUIO
DELL’UMANO


Proiezione unica ore 21.30

Le atmosfere buie e cupe del cinema noir paiono sempre di più le coordinate più idonee per cogliere la condizione dell'uomo contemporaneo. A dispetto di quanto generalmente si creda, l'uomo contemporaneo pare infatti avere una comprensione alquanto sommaria di quanto gli accade attorno. Lo stesso mondo entro cui è costretto ad agire pare sfuggente, ambiguo, privo di una razionalità evidente. E cosa dire dei propri simili: paiono tutti seguire i loro soli pensieri, sentire il loro solo dolore. Si pensi: cosa hanno in comune i personaggi di Leviathan ? E quelli di Calvario ? E cosa dire dei protagonisti di Chi è senza colpa ? Si pensi poi alla condizione di Kate in Sicario e quella di Kolya in Leviathan: non sono simili ? Non vivono i due personaggi lo stesso dramma ? Che fine ha fatto lo Stato, la Chiesa, la Morale, l'Etica ? Sono questi alcuni degli interrogativi che questa rassegna, sprofondando nel cupo buio dell'umano, solleva. La contrassegna un noir vero e proprio, girato ai confini del mondo, il cui titolo sembra disattendere il cupo buio di cui si parla, ma sembra soltanto (Fuochi d'artificio in pieno giorno). Sono poi cupissime le tenebre nell'ultimo film proposto, El club, opera impietosa e disturbante di Pablo Larrain in cui il dito è puntato contro l'aberrazione di chi, su questa terra, avrebbe il compito di elevare lo spirito e riscattare la carne. Mario Ferrari

Mercoledì 30
Settembre

LRVIATHAN

Kolia vive con la nuova compagna Lilya e il figlio adolescente di primo letto Roman in una remota località rurale nel nord della Russia, vicino al mare di Bering. Tutto quello che ha è una fatiscente casa con veranda sul mare e l'annessa officina, con cui sbanca il lunario facendo il meccanico. Non è un uomo facile, anzi; ex militare, è un uomo coriaceo, dal temperamento violento. Quando però decide di non cedere alle prepotenze del corrotto sindaco Vadim, che pretende di portargli via terra, casa e officina per farvi un albergo, non ha scampo. La causa legale messa in piedi con l'aiuto di un amico avvocato di Mosca, con lui sotto le armi, non può nulla contro l'utilizzo arbitrario del diritto. Come se non bastasse, la sua compagna, dolente e malinconica, lo tradisce con l'amico avvocato e, quando Kolia scopre il tradimento, si uccide. L'avvocato, frattanto, viene brutalmente pestato dagli scagnozzi di Vadim, e se ne ritorna a Mosca con la coda fra le gambe. Davvero non c'è pace per Kolia, su questa terra, e l'epilogo, amarissimo, con le ruspe che demoliscono casa e veranda chiudono il cerchio senza riscatto alcuno. Ambientato in paesaggi desolati, tra relitti di case distrutte, imbarcazioni sventrate e i resti di un gigan-tesco scheletro di balena che non può non far pensare al Leviatano del titolo, oltre al celebre mostro biblico citato nel Libro di Giobbe il film allude al trattato di antropologia politica di Thomas Hobbes, in cui il tema centrale è la dialettica tra individuo e Stato. Kolia, infatti, più ancora che del disimpegno divino - la presenza della chiesa, nel film, infatti, non è di alcun conforto e in nessuno degli ampi paesaggi che costellano il film sembra di intuire, sotto il silenzio del vento e il vuoto delle anime, una presenza superiore che regoli tutto - sembra vittima di quello stesso Stato che, nella visione di Hobbes, ne dovrebbe garantire la libertà e tutelare il diritto.

Mercoledì
21 Ottobre

CALVARIO

Padre James (Brendan Gleeson) è una sorta di Giobbe contemporaneo, costretto ad ascoltare i peccati di una comunità irlandese che pare una galleria di mostri. C'è un ricco aristocratico che odia tutto e tutti, un assassino psicopatico violentatore seriale, una moglie fedifraga con la passione per il felching, un barista acido, un ispettore di polizia che frequenta ragazzini, un medico sadico. Come se non bastasse uno dei fedeli, nell'intimità del confessionale, pensa bene di annunciare al parroco che nel giro di una settimana l'ucciderà per espiare la colpa di un prete che lo violentava da bambino. «Non ha senso uccidere un prete cattivo», gli dice. E aggiunge: «Ucciderò te perché sei innocente come lo ero io». Lo stesso prelato, del resto, è un ex alcolizzato che, dopo la morte della moglie, si è smarrito, per poi ritrovarsi grazie alla Fede. A differenza dell'umanità avariata che lo circonda, padre James non ha però ancora smesso del tutto di sperare, anche se chi dovrebbe avere il compito di ascoltarlo non sembra davvero più credere nella sua missione. La sua chiesa viene data alle fiamme e l'adorato cane sgozzato. Non c'è riscatto nell'Irlanda ferita ritrat-ta da McDonagh, un paese, lo ricordiamo, notoriamente cattolico ma sconvolto dallo scandalo dei preti pedofili. Pervaso da un cinismo che può urtare, program-maticamente perverso, il film accumula personaggi distruttivi e degenerati che paiono anche solo statisticamente esagerati. Eppure, è stato un grande successo in Irlanda. Ambientato negli splendidi paesaggi irlandesi, fotografato benissimo, accompagnato dalle belle canzoni di Townes Van Zandt, è un film, paradossalmente, di struggente bellezza per chi, nel mondo disumanizzato di oggi, avverte ancora il bisogno di calore.

Mercoledì
28 Ottobre

CHI E' SENZA COLPA

Bob (Tom Hardy) lavora come barman in un pub di Brooklyn gestito dal cugino Marv (James Gandolfini). Quest'ultimo, un tempo era il proprietario del locale, ma è finito a fare il galoppino di un criminale ceceno che ha fatto del pub un «drop bar», ossia un locale che, di tanto in tanto, lava i soldi sporchi della malavita. Solitario e taciturno, Bob sta sulle sue, va in chiesa tutte le mattine, ma da qualche parte dentro di lui cova un passato oscuro e dissimulato. Una notte incontra dapprima un cucciolo di pitbull e poi Nadia (Noomi Rapace), una ragazza dall'aria seria e spaventata che vive sola e che è disposta ad aiutarlo con il cane. Molto presto, però, il cucciolo sarà al centro di una disputa tra Bob e Eric (Matthias Schoenaerts), un balordo con i nervi a pezzi che rivendica i propri diritti sul cane e su Nadia, ex mai dimenticata e da cui pare ossessionato. Le cose non vanno meglio al pub, perché Marv ha deciso di fregare il suo boss e di riprendersi quello che era suo. Così, nonostante gli sforzi di Bob, che fa di tutto per restare fuori dai guai, le cose precipitano costringendo l'uomo a rivelare la sua vera natura. Adattamento di una racconto di Dennis Lehane, maestro del noir bostoniano che ha cofirmato la sceneggiatura e dai cui libri sono stati tratti film come Mystic river di Eastwood, Shutter island di Scorsese e Gone baby gone di Ben Affleck, Chi è senza colpa è un noir di razza che dipinge un'atmosfera carica di impliciti dove niente è affermato dai dialoghi, dove tutto è detto tra le righe e dove la maschera sociale non è che un modo per proteggersi dai propri desideri.

Mercoledì
4 Novembre

FUOCHI D'ARTIFICIO

Sugli schermi televisivi le storie di crimine sono il genere largamente predominanti; inflazionato, perfino, ma con varianti rare rispetto al repertorio già noto, il che non può dirsi di questo insolito noir cinese che nel 2014 ha vinto l'Orso d'Oro al Fe-stival di Berlino, cosa più unica che rara per un film di genere. Ambientato nel carbonifero Nord della Cina, il film narra di un caso d'omicidio particolarmente macabro: il corpo della vittima, infatti, viene ritrovato smembrato, con i resti sparsi in distretti carboniferi distanti centinaia di chilometri l'uno dall'altro. L'indagine è difficile, tanto più che il detective che indaga sul caso finisce coinvolto in una sparatoria da cui esce ferito e traumatizzato, il che lo costringe a congedarsi anzitempo dalla polizia. Cinque anni dopo, però, il ripresentarsi di omicidi simili a quello su cui ave-va indagato, lo spinge a riprendere le indagini in privato, coadiuvando vecchi amici rimasti in polizia. Scopre così una pista che porta a una lavanderia in cui lavora una donna, vedova di un operaio seviziato in una miniera di carbone, con cui imbastisce una relazione che diventa l'inizio di una spirale infernale, con scoperte inaspettate e sorprendenti sia per il detective che per lo spettatore. In pratica, non c'è nulla che segua un binario prevedibile o che dia l'impressione di portare ad una soluzione canonica nel film di DiaoYnan, il che è funzionale all'atmosfera noir, come del resto gli ambienti urbani in cui si svolge l'azione, che sembrano fissati in quadri dipinti da Edward Hopper. Alla fine, anche lo strano titolo del film sembra appropriato per questo detective movie girato ai confini del mondo in cui non c'è niente di normale.

Mercoledì
9 Dicembre

SICARIO

L'inizio è formidabile. Siamo sulla linea di confine tra Stati Uniti e Messico, inferno in terra tenuto in scacco da un potentissimo cartello della droga messicano che, fatti fuori i colombiani, domina incontrastato il mercato del narcotraffico. Un'imboscata dell'FBI rivela molto più di quanto era previsto: lo spettacolo ag-ghiacciante di decine di cadaveri. L'agente dell'FBI Kate Macy (Emily Blunt), che ha preso parte all'azione, viene coptata, per ragioni inizialmente misteriose, in una squadra della CIA che combatte da tempo contro il temutissimo cartello. A capo della squadra ci sono il cinico Matt (Josh Brolin), team leader della missione, e il sicario del titolo, un mercenario colombiano che combatte per chi paga e nel con-tempo persegue una sua personalissima vendetta, che ha il viso segnato e lo sguardo ambiguo di Benicio Del Toro. Per Kate è l'inizio di una discesa agli inferi senza fondo. Efficiente e motivata, la donna mai e poi mai si sognerebbe di varcare i limiti imposti dalle regole e dalla legge. Per contro, non c'è regola o legge che Matt e i suoi non infrangerebbero per mantenere il controllo formale dei territori, pur senza alcuna volontà di vincere davvero il Male, nella consapevolezza di trovarsi sempre e comunque di fronte ad un caos in arginabile. Così, chi si fa carico di "fare pulizia", è sempre più "sporco", e i sani principi di Kate, i suoi scrupoli di coscienza, servono solo a farne uno specchietto per le allodole. Dopo La donna che canta (2010) e Prisoners (2013), Sicario riconferma una volta di più il valore del canadese Denis Villeneuve.

In data da
definire

IL CLUB

In una casa sulla costa cilena vivono una suora e quattro preti sconsacrati. Non è una casa qualsiasi, ma una "casa di pentimento", uno dei tanti ricoveri dove la Chiesa cilena confina preti colpevoli di crimini gravi, altrimenti scontati in prigione. Il rituale d'espiazione è semplice: oltre al confinamento, messa, canti religiosi e rosari. Unica distrazione, le corse con i cani, con cui i preti racimolano anche qualche soldo. A rompere l'equilibro giunge un quinto prete, assillato da un adulto disturbato da lui abusato quand'era bambino, il che ha un esito drammatico. Un prete "per bene", padre Garcia, indaga e, alla fine, trova la misura di compensazione: i cani, rei di distrarre i preti dall'espiazione, verranno abbattuti, mentre la vittima, bambino abusato ieri e adulto disturbato oggi, verrà integrata nell'eco-nomia domestica dei quattro ad incarnare il fantasma con cui ciascuno di essi deve fare i conti. Il finale, però, è agghiacciante, tanto da ricordare quello di Post Mortem, secondo capitolo della trilogia che il regista ha dedicato al periodo più oscura del Cile, quello segnato da Pinochet e dal golpe militare che depose Alliende (Tony Ma-nero, 2008; Post Mortem, 2010; No – I giorni dell'arcobaleno, 2012). Qui, come la, il giudizio sull'umano è impietoso. Che si tratti degli orrori del Potere o della Chiesa il risultato è sempre lo stesso: altro che presa di coscienza o, men che meno, redenzione. Quello che riusciamo a fare, al più, è nascondere al mondo il male che commettiamo nel modo più sporco possibile, sempre e comunque.