I FILM
LIBERANO LA TESTA

Il titolo di questa rassegna è ispirato a una vecchia raccolta di saggi di Rainer Werner Fassbinder che racchiudeva il senso più profondo del suo cinema, il suo essere, cioè, militante, il suo voler “liberare la testa” agli spettatori, il suo volerne fare dei soggetti consapevoli e non delle tabule rase alla mercé del sentire del tempo. In effetti, almeno quattro dei titoli programmati propongono serrate requisitorie edificanti: dalla critica al radicalismo islamico di Due sotto il Burqa, all’elogio della libertà di stampa di The Post, dall’eroismo della realpolitik de L’ora più buia al dramma delle lacerazioni insanabili, sia fisiche che morali, de L’insulto. Dubito, però, che questi film sarebbero piaciuti a Fassbinder. Li avrebbe giudicati “politically correct”, che è la vera, unica dittatura del sentire del tempo, oggi. Altro che “liberare la testa” agli spettatori ! Così, forse, avrebbe amato molto di più gli altri due film proposti, che hanno il registro del melodramma, un genere che lui adorava. Non è forse un film “politico” quello di Paolo Virzì, con i suoi due splendidi protagonisti che, al lumicino della vita, piantano i figli e se ne vanno in giro lungo i percorsi dei loro ricordi, finche ne hanno ancora di ricordi condivisi ? Di film “politici in questo senso ne vedremo molti nella rassegna che chiuderà la stagione e che, nel tempo della dittatura dei “social”, sarà significativamente intitolata «Una estrema solitudine».

Mercoledì
21 Febbraio

Due sotto
il burqa


di Sou Abadi
(Francia, 2017)

DUE SOTTO IL BURQA

Un film delizioso, divertentissimo, che si fa beffa del radicalismo religioso senza prenderlo troppo sul serio. La storia è quella di Leila e Armand, che studiano scienze politiche e si amano in una banlieue parigina linda e pacifica in cui, miracolosamente, l’integrazione sembra possibile. I genitori di lui, iraniani di origine, hanno lasciato la patria dopo l'avvento di Khomeini. Lei, invece, si vede ripiombare in casa il fratello Mahmoud, reduce dallo Yemen, in piena radicalizzazione islamica, che le impedisce di incontrare Armand e vuole avviare alla radicalizzazione anche il fratello minore. Armand, però, pur di vedere Leila si fa convincere dagli amici a indossare un burqa e a farsi passarsi per una donna. Mahmoud, da parte sua, si mette in mezzo e nei frequenti incontri che ha con questa strana donna, che mostra affabilità, cultura e indipendenza di giudizio, se ne innamora perdutamente giungendo a mettere in dubbio tutte le certezze acquisite con la radicalizzazione. Diretto da una regista di origini iraniane trapiantata in Francia, il film incrocia il vissuto della regista con una parodia del fondamentalismo islamico. Il risultato è un’opera garbata che racconta le contraddizioni della convivenza in una società multietnica e multiculturale tenendosi lontano dalla cronaca giornalistica. Si prenda la madre di Armand, che è il personaggio meno convenzionale del film. Fervente femminista anti-islamica, non è però priva di contraddizioni: dà da mangiare arrosto di maiale al figlio, ma vorrebbe per lui un matrimonio combinato. Il marito, da parte sua, gli da corda. L’idea geniale del film, però, sta nell’uso che viene fatto del burqa: da simbolo di segregazione della donna a strumento di affrancamento dall’ortodossia idiota. E’ grazie al burqa, infatti, che Armand riesce ad intessere un dialogo con Mahmoud.

Mercoledì
28 Febbraio

La ruota delle
meraviglie


di Woody Allen
(USA, 2017)

LA RUOTA DELLE MERAVIGLIE

Siamo a New York, negli anni Cinquanta, sullo sfondo di Coney Island e della celebre ruota panoramica che, fin dagli anni Trenta, ne contraddistingue la skyline. Ginny (Kate Winslet) è una ex attrice sulla quarantina che lavora come cameriera in un modesto ristorante di pesce. E' sposata in seconde nozze con l'addetto alla ruota panoramica (Jim Belushi), e ha un rapporto difficile sia con il marito, che diventa violento quando beve, sia con il figlio avuto dal primo matrimonio, che si diletta con la piromania. Come se non bastasse, è frustrata da una vita priva di prospettive e dal fallimento del primo matrimonio, di cui si sente colpevole. Così, si invaghisce di Mickey (Justin Timberlake), un bagnino più giovane di lei con aspirazioni da commediografo. A complicare le cose, ci si mette la figlia di primo letto del consorte (Juno Temple), che finisce anch'essa per invaghirsi del bel bagnino. Orfana di madre, la giovane ribelle è a sua volta in fuga da un matrimonio fallito con un poco di buono, così è davvero un ritratto di varia umanità quello che ci viene servito sullo schermo. Ormai ottantaduenne, Woody Allen continua a girare film ad un ritmo forsennato. In cinquantuno anni di attività ne ha girati quarantotto, quasi uno all'anno in cinquant'anni. Ultimamente, rompendo una vecchia consuetudine, ha anche preso a cambiare vorticosamente gli interpreti e, da due film a questa parte, a collaborare con Vit-torio Storaro, collaborazione, questa, che segna a vista il film. Il suo scopo, però, rimane sempre lo stesso: tenere lontana la morte, che continua a dire di aborrire.

Mercoledì
7 Marzo

Ella & John

di Paolo Virzi
(Italia, 2017)

ELLA E JOHN

Ella (Elen Mirren) e John (Donald Suterland), da giovani, andavano in vacanza in camper con i figli. Gli anni sono passati, sia per loro, che per il vecchio camper, il “The Leisure Seeker” del titolo originale del film. Una bella mattina d'estate, però, per sfuggire a un destino di acciacchi e di cure mediche che si profila ormai incombente all'orizzonte, la coppia sorprende i figli ormai adulti e, senza dire niente, se ne scappa con il vecchio camper alla volta di Key West. L'obiettivo è la casa di Hemingway, autore adorato da John, professore di letteratura in pensione, la via, la vecchia Route One. John è svanito e smemorato, ma, a parte gli inconvenienti dell'età, ancora saldo in salute, Ella, al contrario, è gravemente malata, ma lucidissima. Dopo La pazza gioia, Paolo Virzì torna al film “on the road” ritagliandosi uno spazio in quel filone di film che hanno fatto dell'invecchiamento, della demenza senile e delle malattie invasive un genere cinematografico. Gli ambienti californiani, che fanno da sfondo alla storia, rendono il tutto più spensierato e suggestivo, anche se l'epilogo accentua le venature malinconiche di un film che, per tre quarti, è giocato sul registro della commedia lieve. Commovente il personaggio del professore di letteratura interpretato da Donald Suterland, che ricorda le sue studentesse d’un tempo ma dimentica i nomi dei figli e ha lampi di tenerezza nello sguardo che si spengono all'improvviso lasciandolo solo e indifeso. L’adorata moglie Ella lo asseconda per un ultimo viaggio, prima di lasciarlo al limbo che incombe.


Mercoledì
14 Marzo

The Post

di Steven Spielberg
(USA, 2017)

THE POST

Contrariamente a quanto si possa pensare, The Post è una sorta di instant movie, deciso e diretto a tambur battente da Steven Spielberg all'indomani delle elezioni che hanno portato Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti. Dinanzi a un presidente che, per usare del parole di Meryl Streep, coinvolta nel progetto assieme a Tom Hanks, «mostra ogni giorno ostilità nei confronti della stampa e delle donne», Spielberg ha pensato bene di rievocare la vicenda della contrastata pubblicazione, nel 1973, da parte del Washington Post di documenti classificati top secret sulla guerra del Vietnam, pubblicazione che portò la testata giornalistica allo scontro frontale con i poteri forti della nazione, ivi incluso presidente e Corte suprema, il tutto in nome della libertà di stampa. Le due star hollywoodiane prestano il volto, rispettivamente, a Katharine Graham, editrice del Washington Post, e Ben Bradlee, direttore del quotidiano. Furono loro, infatti, in quel frangente, a dover rispondere agli interrogativi che stanno al fondo di ogni condotta responsabile: quand'è che giunge il momento di far sentire la propria voce? Quand'è che bisogna tracciare la linea e tenere la schiena dritta? Quand’è che giunge l'ora di rischiare tutto ? Spielberg è un maestro e gli attori danno alla vicenda una forza cui è difficile sottrarsi, anche se una sensazione di déjà vu accompagna il film. D’altronde, siamo nel solco di uno dei generi più classici del cinema americano, il film “a tesi” sulla liberà di stampa.


Mercoledì
21 Marzo

L’insulto

di Ziad Doueiri
(Libano, 2017)

L'INSULTO

Siano a Beirut, oggi. Yasser fa il capocantiere; è efficiente e scrupoloso, ma ha una storia alle spalle, è un profugo palestinese. Toni, invece, fa il meccanico e milita nella destra cristiana. Un tubo rotto, un battibecco e un insulto sproporzionato, pronunciato da Toni in un momento di rabbia, sprofondano i due in una spirale di rancori senza fine che si riflette sulle vite private di entrambi ma che si rivela tutt'altro che una questione privata. Sullo sfondo, e neanche tanto, c'è la guerra civile libanese, che è finita nel 1990, ma basta una miccia piccola piccola come una mezza grondaia che sgocciola per dare nuovamente fuoco alle polveri e riproporre le contraddizioni di una nazione divisa in due. Lo spunto per il film il regista e la sua ex compagna e cosceneggiatrice Joelle Touma lo hanno tratto da una infelice sortita verbale dello stesso regista che, in un momento di nervosismo, ha apostrofato in malo modo un operaio, il che li ha spinti a riflettere su come certe frasi non vengano mai pronunciate per caso ma sottintendano sentimenti che, ancorché repressi, covano per poi, prima o poi, deflagra re. Presentato nel 2017 al Festival di Venezia, il film ha vinto la Coppa Volpi per il migliore interprete maschile, che è stato assegnato del tutto discutibilmente a uno solo dei due interpreti, quello palestinese. Il regista, che da parte sua ha spiegato di non essere «né Toni né Yasser», al suo ritorno in Libano è stato arrestato per «collaborazionismo con il nemico israeliano», anche se poi il suo film è stato designato per rappresentare il Libano nella corsa all’Oscar.

Mercoledì
4 Aprile

L’ora più buia

di Joe Wright
(GB, 2018)

L'ORA

Siamo in Gran Bretagna, nel maggio del 1940. Il Belgio è caduto, la Francia è stremata e l'esercito inglese è intrappolato sulla spiaggia di Dunkirk. Il primo ministro Neville Chamberlain lascia. Gli succede Winston Churchill che, negli anni che avevano preceduto la guerra, sembrava ormai destinato a un declino irreversibile. L'uomo, però, non è fatto di una pasta qualsiasi e, in quella che si annuncia come “l'ora più buia” per la nazione, la prende per mano e, senza tergiversare, la porta allo scontro frontale con Hitler. Sebbene la produzione sia americana e non britannica, il film di Wright sembra fare il paio con Dunkirk di Christoper Nolan, visto che entrambi i film raccontano la stessa storia, cambiandone la prospettiva. Se infatti il punto di vista di Nolan è quello dell'altra sponda della Manica, con i militari inglesi intrappolati a Dunkirk che attendono lumi dalla madre patria, Wright ci apre invece il dietro le quinte della politica britannica in quei giorni cruciali, sprofondandoci in quegli austeri e cupi uffici in cui Churchill diventerà in breve mattatore assoluto. Gary Oldman è mostruoso nel dargli corpo e, nella ricerca della perfetta mimesi con il suo personaggio, non ce ne risparmia i vizi (la passione per il cibo, il fumo e l'alcool), il carattere spigoloso e l'amorevole rapporto con la moglie. Fatta la tara, però, non vi è dubbio che Churchill sia stato uno di quei grandi statisti di cui oggi è povero il mondo, così come non vi è dubbio sul fatto che non sia stato solo un grande statista. Prova ne sia il premio Nobel che gli è stato assegnato per la letteratura.