NON
RICONCILIATI

IL CINEMA DI CHI SI RIBELLA ALLA
LEGGE E SCEGLIE LA LIBERTA’

Proiezione pomeridiana ore 17.00
Replica serale ore 21.30


Sul limitare del 25 aprile il cinema Capitol propone un omaggio a chi, nel mondo, si ribella alla Legge e si batte per la Libertà. Si comincia con un documentario su “Bella ciao”, la canzone dei partigiani italiani divenuta simbolo, nel mondo, di chi si ribella, per chiudere con un formidabile film iraniano, spietata requisitoria contro chi china il capo e accorata perorazione delle ragioni di chi si batte per la libertà, anche nei regimi più dispotici, in cui, nel momento clou del film, si ode, appunto, “Bella ciao”.

Mercoledì
13 Aprile

Da Odessa all’Iran di Rasoulof, passando
per le montagne italiane, la storia della canzone
che i partigiani non cantarono mai, ma che è
divenuta l’inno di chi si ribella in tutto il mondo


locandina

Molti non lo sanno ma la melodia di Bella Ciao, la canzone dei partigiani italiani, in origine era una canzone folk yiddish intitolata Dus Zekele Koilen, la cui prima incisione conosciuta risale al 1919. Ad inciderla fu un fisarmonicista d’origine rom nato ad Odessa, la città ucraina oggi sotto la minaccia delle bombe russe, Mishka Tziganov, che successi- vamente emigrò negli Stati Uniti e aprì un ristorante a New York. Come questa melodia sia giunta in Italia non si sa, così come non si sa quale sia l’origine del testo “partigiano”, mentre è assodato che “Bella Ciao” non sia in pratica mai stata cantata durante la guerra di liberazione, anche se poi negli anni Sessanta è diventata la canzone dei partigiani italiani. Qualcuno dice che prima del 1945 la cantassero solo alcuni gruppi di partigiani sparsi sulle montagne tra Modena e Bologna, qualcun altro che fu addirittura l’inno della Brigata “Maiella”, ma la realtà è che prima del 1945 la canzone piï amata dai partigiani era Fischia il vento, la cui impronta comunista nel dopoguerra venne considerata troppo marcata: “Fischia il vento / infuria la bufera /scarpe rotte e pur bisogna andar / a conquistare la rossa primavera / dove sorge il sol dell’avvenir”. Così fu Bella ciao a divenire l’inno della Resistenza, che con il suo riferimento all’invasor andava bene un po’ per tutti, comunisti, socialisti, democristiani e perfino per le Forze armate. D’altronde, non vi è traccia di Bella ciao in Canta partigiano (1945), né nella rivista Folklore, che nel 1946 dedicò ai canti partigiani due numeri, né nelle varie edizioni del Canzoniere italiano di Pasolini, che pure conteneva una sezione dedicata ai canti partigiani, e non c’è traccia di Bella ciao neppure nella celebre Storia della Resistenza di Roberto Battaglia, né nel 1953, né nel 1964. Comunque sia, quale che ne sia la genesi, Bella ciao è oggi considerata in tutto il mondo l’inno di chi si ribella al potere e, in questa veste, si ode anche in uno splendido film del regista iraniano Mohammad Rasoulof, Il male non esiste, a sua volta un sentito omaggio a chi non china la testa e “resiste” alla coercizione della Legge, che nel 2020 ha vinto l’Orso d’oro al Festival di Berlino ma che solo in queste settimane è giunto in Italia. Da qui l’idea, sul limitare della Liberazione, di abbinare i due film, in omaggio a chi, ovunque nel mondo, resiste.

Mercoledì
27 Aprile

locandinapg1

Siamo in Iran, oggi. Quattro storie, suddivise in altrettanti capitoli, ciascuno con un proprio titolo, per raccontare la fragilità dell’essere umano di fronte alle scelte obbligate, e alle responsabilità che ne derivano, in un regime dispotico. Un uomo di quarant’anni, generoso e accomodante con tutti, marito e padre esemplare, tutte le notti esce di casa per andare a lavorare. Ma che lavoro fa ? Un giovane, che ha da poco iniziato il servizio militare, si vede costretto ad eseguire un ordine che mai e poi mai vorrebbe eseguire. Un altro giovane, che ha pagato dazio per tre giorni di licenza, raggiunge l’amata per chiederla in sposa, ma viene brutalmente messo di fronte alle responsabilità del suo gesto. Un medico, interdetto dalla professione, decide di rivelare alla nipote, in realtà sua figlia, le ragioni del suo abbandono, anche se, incalzato dalla figlia, non si pente affatto. La strada che porta alla libertà è impervia e non fa sconti, ma è quella giusta. Cambiano gli scenari: la città, gli interni claustrofobici di una struttura militare, la montagna, una casa vicino al fiume, ma il terzo e il quarto episodio si rivelano lucidamente come leggere variazioni sui temi proposti dai primi due dando corpo a una lucidissima requisitoria sulla responsabilità individuale di fronte alla Legge. Un film di una potenza e di una coerenza rare, in cui Rasoulof, memore della lezione di Hannah Arend, non criminalizza chi compie il male, ma elogia il coraggio di chi si ribella alla Legge e sceglie la Libertà. Nella scena clou del film, l’unico momento gioioso di una pellicola per il resto cupissima, si odono le note di Bella ciao, la canzone dei partigiani italiani divenuta inno di tutti i popoli in rivolta, ed è difficile descrivere l’emozione che si prova. D’altronde, Mohammad Rasoulof, il regista, vive sulla sua pelle il dilemma tra Legge e libertà, nel suo caso tra censura e libertà creativa.. Nel 2010 è stato condannato a sei anni di carcere per aver girato un film senza i necessari permessi, pena poi ridotta a un anno. Nel 2017, di ritorno dal Festival di Cannes, dove aveva vinto la sezione Un certain regard, gli è stato ritirato il passaporto. Nel 2020, quando Il male non esiste ha vinto l’Orso d’Oro al Festival di Berlino, non ha potuto riti-rare il premio perché agli arresti domiciliari a Tehran. Pochi giorni dopo la premiazione è stato condannato a un anno di carcere e al divieto di girare film per i successivi due anni, perché tre dei suoi film sono stati ritenuti di propaganda contro il governo iraniano. A questo proposito, Rasoulof ha raccontato che un giorno ha visto casualmente in strada uno dei suoi persecutori del passato e si è messo a seguirlo con l’intenzione di affrontarlo verbalmente in modo molto duro. Ma, prima di farlo, si è accorto dai comportamenti dell’uomo che questi non era affatto un mostro, il che lo ha convinto che è lo Stato repressivo che, attraverso la Legge e la coercizione, indirizza la condotta del singolo in modo da garantire la continuità illiberale e, quindi, la sussistenza del regime dispotico. Da qui il titolo del primo capitolo, che è poi il titolo del film, “il male non esiste”, leggera variazione rispetto al titolo del capolavoro della Arendt, “la banalità del male”.
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Il patrocinio di Amnesy Internationale e il punto
sulle pene capitali eseguite ogni anno in Iran


Sebbene il respiro del film di Rasoulof sia universale, la fattispecie che egli ha preso a pretesto per esemplificare la sua argomentazione, che, lo ripetiamo, riguarda la dialettica tra chi ossequia la legge, anche se questa è ingiusta, e chi invece si ribella, ossia le esecuzioni capitali, è di per sé degna di approfondimento. Molti, infatti, non lo sanno, ma circa la metà delle esecuzioni capitali di cui si ha notizia ogni anno vengono eseguite in Iran. Stando ai dati dell’organizzazione non governativa Iran Human Rights, che pubblica ogni anno un rapporto sulla
 pena di morte in Iran, le esecuzioni capitali eseguite nel 2021 sono state almeno 365, rispetto alle 267 del 2020, alle 280 del 2019 e alle 273 del 2018. Si tratta di dati parziali, poiché si stima che, in media, solo un terzo delle esecuzioni viene reso noto dalle autorità., ma che bastano e avanzano per fare dell’Iran una delle nazioni in cui si uccide di più. Delle 267 condanne a morte eseguite nel 2020, tanto per avere un’idea delle vittime, 211 hanno riguardato omicidi, 25 reati di droga, 2 partecipazione a manife-stazioni, 1 il consumo di bevande alcoliche, 1 la gestione di un canale social a contenuto politico, mentre sulle restanti non sono disponibili informazioni. Relativamente alle con-danne per omicidio, va aggiunto che in forza ad una legge che annulla la condanna a morte nel caso la famiglia delle vittime conceda il perdono, queste sfiorerebbero il migliaio da sole se si considera che solo nel 2019 le condanne cancellate sono state 662. Le donne messe a morte sono state 9 nel 2020 e 18 nel 2021, i minorenni 4 nel 2020 e 7 nel 2021, sebbene l’Iran aderisca alla Convenzione per i diritti del fanciullo che vieta la pena di morte in questi casi. Negli ultimi anni è stato anche registrato un aumento delle esecu-zioni capitali nei confronti delle minoranze etniche, per lo più ahwazi, arabi iraniani della provincia del Khuzestan, e baluci. Nel 2021, forse qualcuno se lo ricorderà, è circolata una terribile fotografia di quattro giustiziati di etnia ahwazi nella prigione di Sepidar, ad Ahwaz, la capitale del Khuzestan. Su tutti e quattro i corpi restituiti alle famiglie per la sepoltura erano visibili prove evidenti delle torture che avevano subito, mentre le loro labbra ave-vano ancora i segni delle cuciture autoinflitte per lo sciopero della fame che avevano con-dotto nel vano tentativo di richiamare l’attenzione sulle loro condizioni detentive, le inter-dizioni alle visite familiari e la loro imminenti impiccagioni. D’altronde, l’attuale presi-dente iraniano, Ebrahim Raisi, definito dagli stessi esponenti del regime un “campione della forca”, fu tra i più attivi membri di quella “Commissione della morte” che nel 1988 giustiziò oltre 30.000 prigionieri politici nel giro di pochi giorni. Un eccidio, questo, che molti, oggi, chiedono sia considerato un crimine contro l’umanità.