NOSTALGIA
DELLA MEMORIA
SUL PASSATO CHE NON PASSA
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Si apre con un titolo emblematico questa breve rassegna su chi vive ai margini delle società opulenti, cerca accoglienza e non respingimenti, riconoscimento e non sufficienza: gli indesiderabili ! E’ così, infatti, che deve sentirsi quell’umanità derelitta che preme ai nostri confini: indesiderabile, appunto. Tre film, quindi, su chi soffre e cerca riconoscimento, su chi si mette in viaggio lasciando alle spalle affetti e identità, su chi arranca ai margini di un mondo che non li vuole, su chi si incaglia nei confini, fisici e mentali, che li respingono, creando ghetti e steccati, anche solo burocratici. Tre film, infine, sull’alterità di chi è uguale ma diverso, di chi, anche se integrato, sconta sempre una distanza, sempre più breve ma incolmabile, tra ciò che riesce ad essere e ciò che vorrebbe essere. Il tutto senza additare colpe, senza indulgere a facili schematizzazioni politiche, senza affettare il mondo tra chi si cre buono e si rivendica tale, e chi, invece, viene additato come cattivo solo perché appartiene a un altro schieramento politico. Tre film, quindi, che guardano a un nuovo umanesimo, il cui è l’alterità al centro del dibattito, e non la contrapposizione politica fine a se stessa.
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Mercoledì 13
Novembre
Un film che colpisce, questo Gli indesiderabili, anche se il titolo originale è Bâtiment 5, ossia l’edificio n° 5, che è il contesto, il teatro in cui svolge la vicenda, che è più neutro, meno ideologico, che è invece il taglio che la distribuzione italiana ha voluto dare al film. Rivelatosi nel 2019 con Les misérables, Premio della Giuria al Festival di Cannes, il regista Ladj Ly nelle degradate periferie multietniche francesi ci è nato. Se però quel primo film, durissimo, era ambientato nel comune realmente esistente di Montfermeil, nel dipartimento di Seine-Saint-Denis, dove il regista è cresciuto, questo Gli indesiderabili è ambientato nell’agglomerato fittizio di Montvilliers, il che ne decontestualizza la storia facendone un simbolo delle tante realtà, in Francia e in Europa, in cui la questione abitativa e quella degli immigrati di seconda e terza generazione si fondono in un nodo che le istituzioni tardano o non riescono a sciogliere. La protagonista è Haby, una giovane donna che lavora per un'associazione che cerca di aiutare le famiglie in difficoltà e i nuovi migranti facendo da ponte con le istituzioni. I problemi sono tanti, la convivenza non è sempre facile, ma gli abitanti del palazzo hanno faticosamente costruito in quelle stanze la loro casa e la loro comunità. Alla morte improvvisa del sindaco, però, la carica viene assunta da un uomo ingenuo e spaventato, un pediatra senza grande esperienza politica che intende riqualificare il quartiere a suo modo e risponde alle provocazioni con la repressione. La giovane Haby gli tiene testa, avviando una battaglia politica per evitare l'abbattimento dell'edificio 5, ma la tensione tra gli opposti fronti si alza fino a deflagrare, la notte di Natale. Il punto di vista che fa proprio il regista è quello di Haby, che rifiuta tanto la logica del conflitto violento quanto l'esercizio della rassegnazione. Interrogata dal nuovo sindaco sulla sua identità, Haby risponde incarnando il tema del film: "Sono una francese di oggi", dice, e così dicendo rispedisce al mittente la questione identitaria. Se dai contenuti si passa allo stile, va riconosciuto come il regista non abbia ancora domato la sua rabbia. Chi ha visto Les misérables ricorderà di certo la scena, terrificante, girata nella gabbia della tigre. Una scena talmente potente che, a suo tempo, ci incusse a non proporre il film al Capitol sebbene fosse uno dei titoli forti della stagione. Qui, in questo nuovo film, ci sono due sequenze iniziali egualmente sopra le righe, ma che però vanno viste. La prima è quella della bara, con il corpo di un’anziana, che viene portata a fatica giù per le scale del bâtiment del titolo, che verrà evacuato di lì a poco; è una scena tragicomica, - l’ascensore è rotto da anni -, nella quale alle lacrime dei parenti si uniscono i sorrisi di chi assiste, e che non può evitare di pensare che quella cassa possa fragorosamente scivolare da un momento all’altro. L’altra sequenza è quella del vecchio sindaco che, dopo aver premuto il pulsante che avvia la demolizione di un altro casermone popolare, ha un infarto e ci resta secco. Anche qui siamo nella tragicommedia bella e buona, anche se poi il tono si quieta, settandosi sugli stilemi del cinema di denuncia sociale. La scena clou, in questa seconda parte, è quella pioggia di materassi, televisori, peluche, ecc, che dalle finestre finiscono giù in strada bellissima, quando il bâtiment viene sgomberato. “È tutta la loro vita”, dice Haby, che diventerà paladina, fino a un certo punto suo malgrado e poi per accesa convinzione civica, di questa rivolta di quartiere. È una ripresa a suo modo epica, che resterà nella memoria. Un film forse a tratti schematico, ma che non risparmia nessuno, evidenziando le contraddizioni un po’ di tutti i protagonisti: Roger, l’assistente del sindaco, è nero, ma non difende per davvero gli immigrati, o così almeno pensano di lui; Blaz, l’amico di Haby, non sa distinguere il senso di giustizia dal revanscismo furioso e psicotico; Nathalie, la moglie del sindaco, corregge i siriani quando parlano francese perché in fondo tiene più alla forma che alla sostanza. E poi, è stato scritto, “c’è il grande coro tutto attorno, che è una società intera, che siamo noi, le nostre città, il nostro caro-affitti e la nostra pretesa di sicurezza, le città sgomberate, sempre più difficili da vivere per tutti. Tutte cose che restano lì, tra un repost su Instagram e un borbottio al bar”.
Mercoledì 20
Novembre
Mercoledì 27
Novembre